Porta Latina

La porta, che prende il nome dalla via Latina, la strada diretta verso la Campania attraverso i Colli Albani e le valli del Sacco e del Liri, fu costruita secondo il modello ad unico fornice rivestito di blocchi di travertino e fiancheggiato da due torri semicircolari di laterizio, comune ad altri varchi del circuito.

Della fase aurelianea rimangono diverse tracce, tra le quali la presenza, nella torre occidentale, di un vano scala per raggiungere la camera di manovra della saracinesca. Quest’ultima, di cui si conserva l’alloggiamento all’interno dell’arco, bloccava l’accesso dall’esterno, mentre verso la città la porta era chiusa con due battenti lignei provvisti di cardini. 

Con l’innalzamento e il rafforzamento delle Mura realizzato dall’imperatore Onorio, anche le torri di porta Latina raggiunsero i tre piani di altezza; per sostenere il peso della camera superiore fu necessario riempire il vuoto della scala nella torre occidentale e ricavare un nuovo accesso in uno dei bracci della controporta, il cortile di guardia interno edificato in epoca onoriana e oggi scomparso.

Il paramento in blocchi della porta è ancora quello di età aurelianea, ad eccezione della riduzione del fornice realizzata durante i lavori dell’imperatore Onorio, di cui si distinguono chiare tracce sul prospetto esterno. A questa stessa fase appartengono il monogramma cristologico scolpito sul blocco esterno centrale dell’arco e la croce bizantina su quello del lato interno. 

Porta Latina, resa definitivamente praticabile solo nel primo decennio del Novecento, fu murata più volte nel corso dei secoli: dopo una breve chiusura nel 1408, il passaggio fu interdetto a seguito delle misure sanitarie dovute alla pestilenza del 1656-1657, fu aperto nel 1669 e murato ancora nel 1808, con una breve riapertura nel 1827. 

Fu proprio la chiusura del varco che nel 1870 impedì al generale Luigi Cadorna e alle sue truppe di entrare in città dal quadrante sud orientale, costringendoli a ripiegare su porta Pia per annettere Roma al Regno d’Italia. 

Porta Metronia

Porta Metronia, costituita da un unico arco privo di decorazioni, era un passaggio secondario ricavato nel tratto di Mura tra due torri, una posterula che consentiva l’accesso al Celio protetta ai due lati dalle Mura stesse, che in questo settore seguivano l’andamento fortemente scosceso del terreno. Il nome, derivato probabilmente dai vicini possedimenti di un Metrobius o Metronianus, compare nella cartografia storica corrotto in Metrobia, Metroia, Metrovi, Metrovia, Metropi, Mitrobiensis, Metaura.

Con la ristrutturazione delle Mura disposta dall’imperatore Onorio nel V secolo (401-403) e la costruzione della galleria superiore, la porta fu dotata di una torre sporgente verso l’interno della città, probabilmente da interpretare come controporta, sede del corpo di guardia o alloggiamento della saracinesca di chiusura.

Dal XII secolo l’arco non fu più utilizzato per il transito, ma nel progetto di potenziamento dei rifornimenti idrici di Callisto II (1122) divenne il passaggio per il canale che conduceva in città l’Aqua Mariana. La zona si prestava a questo scopo anche per la presenza di una valle naturale conformata sin dall’antichità dallo scorrimento delle acque e da formazioni palustri, note in letteratura con il nome di palus Decenniae, dalle proprietà della gens Decennia

Pochi anni più tardi la struttura, che evidentemente versava in condizioni degradate, fu restaurata per volontà del Comune di Roma, come ricorda un’iscrizione tuttora leggibile sulla lapide murata nella cortina della torre di controporta, che reca la data del 1157 e l’elenco dei senatori. Una seconda lapide del 1579, posta accanto alla precedente, documenta un successivo restauro eseguito sotto il pontificato di Gregorio XIII, promosso da un conservatore capitolino, discendente di quel Nicola Mannetto, presente tra i firmatari della lapide medievale. 

L’arco della porta chiusa è attualmente visibile dal lato interno alla città ad un metro circa di altezza rispetto al piano stradale moderno. Il piano di calpestio originale, infatti, fu progressivamente innalzato nei primi del Novecento con i terreni di riporto provenienti dagli scavi delle Terme di Caracalla e della Passeggiata Archeologica, che interrarono definitivamente anche il canale dell’Acqua Mariana. 

Porta Prenestina e Labicana

La porta sorge sulla propaggine sud-est dell’Esquilino, in un’area un tempo elevata, denominata ad Spem Veterem per la presenza nelle vicinanze di un antico tempio dedicato alla Speranza. Il santuario, eretto nel 477 a.C., non è stato mai ritrovato, ma ha lasciato alla zona il toponimo. Il luogo era attraversato, fin da epoca remota, dalle vie Labicana e Prenestina. 

Nel tempo l’area venne caratterizzata dalla presenza di numerosi acquedotti, che da qui entravano in città sfruttando l’altezza del luogo. Tra il 38 e il 52 d.C. furono eretti dagli imperatori Caligola e Claudio due acquedotti: Aqua Claudia e Anio Novus. In questa occasione fu costruito un grande arco a doppio fornice, realizzato in opera quadrata di travertino nella particolare tecnica detta a bugnato rustico. Le arcate, sotto le quali passavano le due strade, sono delimitate da piloni che presentano finestre rettangolari, inquadrate da semicolonne corinzie e sormontate da un timpano. L’attico dell’arco è costituito da tre fasce attraversate dagli spechi degli acquedotti e contraddistinte da iscrizioni: l’epigrafe superiore ricorda la costruzione dell’opera da parte dell’imperatore Claudio, mentre le altre due si riferiscono ai successivi restauri condotti da Vespasiano nel 71 e da Tito nell’81 d.C.

Con la costruzione delle Mura Aureliane, le arcate degli acquedotti furono inglobate nella nuova cinta muraria e i due fornici monumentali assunsero la funzione di porta urbica che rimase in uso fino all’epoca di papa Gregorio XVI nel 1838, quando venne abbattuta. Il suo aspetto originario ci è noto solo grazie alle antiche raffigurazioni, tra le quali quelle celebri di Giovanni Battista Piranesi e Giuseppe Vasi.

Ai due lati esterni erano due torri, originariamente rotonde, trasformate agli inizi del V secolo in forma quadrata durante la ristrutturazione avvenuta sotto il regno di Onorio. Nel corso delle demolizioni ottocentesche tornò alla luce l’antico sepolcro di Marco Virgilio Eurisace, inglobato nella costruzione della torre rotonda di Aureliano che era collocata al centro delle due porte. All’interno della cinta muraria vi era una controporta destinata al corpo di guardia, anch’essa demolita nel 1838, e la cui fondazione venne scoperta nel corso di scavi avvenuti negli anni 1955-1957. 

Le due porte gemelle furono denominate, dal nome delle vie sottostanti, rispettivamente porta Labicana e porta Praenestina, mentre quello attuale di porta Maggiore (Porta Maior), attestato sin dal X secolo, sembra essere derivato dalla presenza della vicina basilica di Santa Maria Maggiore.

Porta Tiburtina

La porta Tiburtina mostra oggi un aspetto alterato da numerosi restauri. In origine doveva coincidere con l’arco voluto da Augusto, nel punto in cui tre acquedotti scavalcavano la via Tiburtina, antichissimo collegamento tra Roma, Tivoli e la costa adriatica. Sul prospetto interno delle mura è ben visibile questa prima fase; al di sopra dell’arco augusteo, ornato da una testa di bue scolpita sulla chiave di volta, campeggiano tre iscrizioni legate ai restauri degli acquedotti: in alto si legge l’iscrizione di Augusto scolpita sul condotto dell’Aqua Julia, al centro quella risalente al restauro di Caracalla nel 212 sulla conduttura dell’Aqua Tepula, mentre sul canale inferiore, quello dell’Aqua Marcia, l’epigrafe celebrativa del restauro voluto da Tito nel 79. Dall’altro lato, quello esterno che si affaccia sul quartiere San Lorenzo, è visibile la ristrutturazione in grandi blocchi di travertino del tempo dell’imperatore Onorio. Le finestre in alto servivano ad illuminare la camera di manovra dove i soldati di guardia alzavano o abbassavano una saracinesca. In facciata vi è l’iscrizione che ricorda l’ampliamento delle Mura e riporta i nomi degli imperatori Arcadio e Onorio. 

Nel Medioevo le torri vennero completamente ricostruite in più fasi con blocchetti di tufo più o meno regolari, alternati a fasce di mattoni di recupero. In quest’epoca la porta era nota sia con il nome di porta San Lorenzo, per la vicinanza all’omonima basilica, sia con il nome di porta Taurina, per la presenza delle teste scolpite a rilievo sull’arco augusteo.

All’inizio del Quattrocento, durante gli scontri tra le truppe papali e l’esercito del Regno di Napoli guidato da Ladislao d’Angiò-Durazzo, la porta fu bombardata e il lato verso Roma subì gravi danni. Successivamente fu ristrutturata dal papa Nicolò V (1447-1455) che innalzò le torri fino all’altezza attuale: questo intervento è riconoscibile per l’uso di blocchi di tufo di grandi dimensioni. Ulteriori trasformazioni risalgono alla fine del Cinquecento quando, con la costruzione dell’acquedotto Felice, il condotto si sovrappose alle Mura nel tratto tra porta Maggiore e porta Tiburtina. Nel XVII secolo tutti gli spazi sul lato interno furono occupati da edifici per un corpo di guardia e il Dazio, documentati da diverse foto d’epoca tra fine Ottocento e inizio Novecento.

Nel 1917 il Comune di Roma, su progetto di Lucio Mariani, intervenne nell’area, chiudendo per sempre il transito attraverso l’arco augusteo, demolendo le costruzioni più recenti e trasformando la porta Tiburtina nel monumento di se stessa. Questo tratto di Mura divide oggi il quartiere San Lorenzo dall’area logistica della Stazione Termini.

Porta Clausa

Porta Clausa si trova oggi all’interno dell’area del Provveditorato alle Opere Pubbliche ed è osservabile da via della Sforzesca. Si tratta di una delle porte meno conosciute del circuito, formata da un fornice aperto in un prospetto in blocchi di travertino riutilizzati, sovrastato dalla camera di manovra per il sollevamento della saracinesca un tempo dotata di sei finestre, successivamente tamponate. La tecnica costruttiva permette di attribuire i resti oggi visibili all’epoca di Onorio. È probabile che la porta non abbia mai avuto torri laterali. In questo punto doveva passare una via secondaria, che dalla porta Viminale, aperta nelle più antiche fortificazioni cittadine di età repubblicana, raggiungeva la via Tiburtina dopo aver fiancheggiato il lato meridionale dell’accampamento dei pretoriani. Gli scavi dell’Ottocento hanno mostrato che il lastricato della strada antica è ancora conservato sotto il terreno attuale. 

Il nome Clausa, cioè chiusa, usato da secoli, indica che nella memoria popolare la porta è stata sempre percepita come impraticabile; la tecnica muraria a tufelli e mattoni alternati consente di attribuire la ristrutturazione interna al pieno Medioevo, e la sua tamponatura definitiva entro il XVI secolo. Nella cartografia storica la porta ricorre anche con altri nomi, quali Querquetulana (“del querceto”), e inter Aggeres, ovvero “tra i bastioni”. Quest’ultima definizione deriva dall’ipotesi secondo la quale la strada in uscita dalla porta corresse tra il Castro Pretorio e un recinto fortificato per gli animali destinati alle cacce e ai combattimenti dei gladiatori, prima di perdersi tra ville e campi.

Dal punto di osservazione di via della Sforzesca, la porta è preceduta da un muro rettilineo ricostruito nel Seicento e firmato con gli stemmi dei papi Gregorio XV e Urbano VIII; nel periodo di regno di quest’ultimo, lo Stato Pontificio era impegnato nella guerra di Castro contro i Farnese; per questa ragione le difese della città furono rafforzate con restauri in vari punti del circuito, come in questo caso, e con la costruzione delle Mura del Gianicolo. Questi interventi si caratterizzano per un largo uso di materiale di reimpiego. 

Porta Nomentana

Al momento della costruzione delle mura, porta Nomentana doveva essere uno degli accessi di seconda classe, a cavallo della via omonima: un percorso di origine remota che collegava Roma con il territorio laziale di confine e con la Sabina.

Il prospetto originario doveva essere in travertino ad unico fornice con due torri ai lati: a destra una tipica torre semicircolare su base quadrata con scala interna; a sinistra una torre quadrangolare costituita dal precedente monumento sepolcrale di Quinto Aterio (oratore che visse alla corte di Tiberio), di cui oggi è apprezzabile il solo nucleo in cementizio nel quale sono inglobati blocchi di travertino; questi elementi, in origine, avevano la funzione di favorire l’adesione del rivestimento in blocchi dello stesso materiale. Il riutilizzo di monumenti preesistenti è un fenomeno ben attestato nelle Mura Aureliane: ciò permise di completare il progetto più velocemente e di risparmiare materiale edilizio. 

Quando a metà del Cinquecento Pio IV Medici decise di costruire un nuovo e monumentale ingresso alla città (Porta Pia), Porta Nomentana fu ristrutturata. Sulla nuova porta venne apposto lo stemma del papa, al secolo Giovanni Angelo Medici, e l’iscrizione “PIUS IIII MEDICES/MEDIOLAN PONT/MAX ANN [SAL]/M. D. LX IIII”. Dopo poco tempo andò in disuso e fu chiusa con un muro di tufi e marmi di riuso. 

In questo tratto le Mura fanno da confine all’Ambasciata del Regno Unito, estesa all’interno della città, nell’area già occupata da Villa Torlonia, in precedenza proprietà della famiglia Costaguti.

Porta Salaria

La porta Salaria deve il nome all’omonima strada che, partendo dalla zona di Campo Boario per arrivare fino in Sabina, veniva utilizzata per il trasporto del sale verso le regioni appenniniche fin dall’epoca preromana. La porta oggi non esiste più: pesantemente danneggiata durante i bombardamenti del 20 settembre 1870, venne rasa al suolo e sostituita nel 1873 da una nuova porta disegnata da Virginio Vespignani, allargata nel 1912 e demolita definitivamente nel 1921 per motivi di viabilità.

L’aspetto della porta antica è ricostruibile solo grazie a foto storiche e rilievi, mentre la sua planimetria è riprodotta da elementi di granito rosa inseriti nella pavimentazione stradale di piazza Fiume. La porta è ricordata in diverse fonti antiche con il nome di Salaria, ma anche di San Silvestro, dal nome dell’omonimo pontefice sepolto nella catacomba di Priscilla al terzo miglio della via, e forse di Belisaria, anche se alcuni studiosi attribuiscono questo nome alla vicina porta Pinciana. 

La porta originaria di epoca aurelianea aveva un solo fornice con due torri semicircolari ai lati. Al momento della distruzione nel 1870 furono rinvenuti inglobati nelle torri tre sepolcri, la presenza dei quali aveva determinato le diverse dimensioni delle torri stesse. In età onoriana queste furono rialzate di un piano e la parte inferiore fu rivestita con blocchi di travertino. Probabilmente in quest’epoca venne aggiunta anche la camera di manovra con relativa saracinesca di chiusura del fornice centrale e fu costruita una controporta interna, come quelle di porta Ostiense e porta Tiburtina. 

Tra le vicende storiche che coinvolsero porta Salaria vale la pena ricordare gli eventi legati al sacco di Alarico del 410. Secondo Sozomeno, Alarico entrò in città grazie a un inganno, tradimento del quale parla più diffusamente Procopio fornendo addirittura due distinte versioni. Nella prima, Proba, donna di rango senatorio mossa da pietà verso i suoi concittadini terribilmente provati dal lungo assedio, approfittando del favore delle tenebre, comandò ai suoi domestici di aprire al nemico le porte. Secondo un’altra versione Alarico avrebbe escogitato un piano per prendere la città con un sotterfugio: il re visigoto, fingendo la resa, inviò al Senato romano ambasciatori recanti in dono ben trecento falsi schiavi. Ma costoro, trattenuti all’interno della città, nella notte del 24 agosto del 410, uccisero le guardie del presidio e spalancarono porta Salaria alle truppe di Alarico che conquistarono così la città.

Porta Flaminia

L’antica porta Flaminia fu realizzata, a cavallo dell’omonima via consolare, dall’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) e per lungo tempo costituì uno degli accessi favoriti alla città per chi giungeva dal nord. 

Agli inizi del V secolo Onorio la trasformò: la facciata fu rivestita di travertino e decorata con una semplice cornice a dentelli. Le mura stesse vennero consolidate e furono realizzate due nuove torri laterali quadrangolari che inglobarono nella costruzione quelle di Aureliano. 

Nelle piante di Roma più antiche, la porta continua ad assumere vari nomi tra i quali porta San Valentino, per la vicinanza della basilica omonima e delle sue catacombe o porta Flumentana, per la prossimità con il Tevere. La porta prese poi definitivamente la denominazione del Popolo, dal nome dell’adiacente chiesa. 

Papa Sisto IV della Rovere (1471-1484) restaurò parzialmente la porta rafforzandone la struttura. Un secolo più tardi, nel 1561-62, per volere di papa Pio IV Medici (1559-1565), la facciata esterna della porta venne restaurata dallo scultore Nanni di Baccio Bigio, forse con l’intervento di Michelangelo e di Jacopo Barozzi da Vignola. In questa occasione furono riutilizzati molti materiali antichi come le colonne di granito provenienti dall’antica basilica costantiniana di San Pietro. 

Una grande lapide collocata nella trabeazione ricorda i lavori:

PIVS IIII PONT MAX PORTAM IN HANC AMPLI/TVDINEM EXTVLIT/VIAM.FLAMINIAM/ STRAVIT ANNO III.

In occasione del trionfale ingresso a Roma della regina di Svezia Cristina Wasa (23 dicembre 1655), convertita al cattolicesimo, papa Alessandro VII Chigi (1655-1667) commissionò il restauro del prospetto interno della porta a Gian Lorenzo Bernini. Nella nuova facciata furono inseriti elementi araldici riferiti sia alla famiglia Chigi (quercia, stella e monti) che alla famiglia reale svedese (le spighe). 

A ricordo dell’evento fu posta una lapide: FELICI FAVSTOQVE INGRESSVI/ ANNO MDCLV. Con questo intervento la porta assunse, ufficialmente, la funzione d’ingresso civile e religioso alla città. Nel 1658, per accentuare il significato della porta come ingresso privilegiato alla città santa, tra le colonne del prospetto esterno, vennero poste le statue dei Santi Pietro e Paolo, opere di Francesco Mochi.

Con l’unità d’Italia, venuta meno la funzione difensiva delle mura, porta del Popolo divenne uno dei punti centrali del programma urbanistico della nuova capitale. Per agevolare il crescente traffico la porta fu ampliata con l’apertura di due nuovi archi laterali, operazione che decretò la demolizione delle due torri quadrangolari. 

L’intervento (1877-79), realizzato dall’architetto Agostino Mercandetti, è ricordato dalle due targhe poste al di sopra dei fornici laterali:

ANNO MDCCCLXXIX/RESTITVTAE LIBERTATIS X/TVRRIBVS VTRINQVE DELETIS/FRONS PRODVCTA INSTAVRATA S.P.Q.R./VRBE ITALIAE VINDICATA/INCOLI .FELICITER AVCTIS/GEMINOS FORNICES CONDIDIT

Porta Pinciana

Il nome originario non è conosciuto, fu chiamata Pinciana solo nel IV secolo per la vicinanza al Mons Pincius. La porta viene ricordata anche come porta Salaria Vetus, poiché in questo punto transitava l’omonima strada, quindi Belisaria, dal nome del generale bizantino che nel 537 respinse Vitige re dei Goti, ed ancora porciniana, portiniana o turata. 

Nel 275 Aureliano realizzò una posterula a cavallo di una via secondaria: leggermente obliqua rispetto all’andamento delle mura, la porta fu dotata di una torre dalla forma irregolare, realizzata in mattoni e probabilmente a un solo piano. A Massenzio si attribuiscono limitati interventi di restauro, mentre fu con Onorio che, nel 403, la porta assunse dimensioni monumentali. Fu realizzato un fornice più ampio in travertino, sormontato da una prima galleria coperta, dotata di una camera di manovra per la movimentazione della saracinesca: in caso di pericolo la porta veniva sbarrata da due battenti in legno e da una saracinesca che veniva fatta scivolare dall’alto grazie a dei veri e propri “binari” in travertino. Al di sopra fu realizzato un ulteriore cammino di ronda, scoperto e merlato. Fu aggiunta una controporta interna ed una seconda torre, leggermente più piccola della precedente. La posterula divenne così uno dei punti strategici dell’intero circuito, testimone di reiterati assedi.

In tempo di pace il traffico locale si divideva tra porta Pinciana e la vicina porta Salaria. Un singolare documento del 1467 attesta l’uso di concedere le porte urbane in “affitto”, con relativo diritto alla riscossione del pedaggio per il transito, a privati investitori  che si  assicuravano un buon guadagno dalle gabelle applicate a uomini e merci. Nel 1474 al prezzo di «79 fiorini currenti e bolognini 10» un certo conte de Stefano Maccaroni si aggiudicò, con un unico lotto, le porte Pinciana e Salaria (registro della dogana per l’anno 1474, conservato nell’Archivio Vaticano, documento XXXVII, riportato da S. Malatesta in “Statuti delle gabelle di Roma”, Roma 1886).

Nel XVIII secolo le torri si conservavano ancora fino al secondo piano ma, intorno al 1821, la struttura era talmente fatiscente e traballante che, per motivi di sicurezza, furono abbattute le parti sommitali e foderata la parte inferiore della torre orientale, poi ulteriormente rinforzata ai tempi di Pio IX. Per agevolare il traffico, tra il 1908 e il 1935, sacrificando la muratura antica, furono aperti gli attuali  passaggi veicolari.

Porta Asinaria

La porta Asinaria era in origine un semplice arco rivestito in travertino, aperto lungo un tratto di Mura compreso tra due torri. La porta consentiva il transito lungo la via Asinaria, percorso secondario rispetto alle più importanti vie Latina e Appia. 

Con la ristrutturazione di Onorio nel V secolo, il varco venne modificato e monumentalizzato, anche in funzione dell’accesso alla basilica di San Giovanni in Laterano. Oltre al raddoppiamento dell’altezza, la difesa venne potenziata con l’edificazione di due torri semicircolari, affiancate alle preesistenti torri quadrate, e con la costruzione di una controporta dotata di una corte interna per il corpo di guardi. 

Durante la guerra greco-gotica, porta Asinaria costituì l’accesso alla città per le truppe di Belisario (536) e di Totila (546), per diventare poi teatro delle ultime fasi del conflitto fra Enrico IV e papa Gregorio VII (1084). Nota dall’Alto Medieoevo col nome di porta Lateranensis, porta Sancti Johannis Laterani o porta de Laterano, mantenne per secoli la sua funzione difensiva, come dimostrano i progressivi adattamenti all’evoluzione delle tecniche militari e degli armamenti, tra i quali la riduzione delle finestre del corpo centrale dopo l’introduzione delle armi da fuoco. 

Con il graduale innalzamento del livello del suolo circostante, dovuto a  trasformazioni urbanistiche e a fenomeni naturali, la porta divenne inutilizzabile per la sua quota troppo bassa. Dopo essere stata spogliata del rivestimento in travertino e delle soglie, venne murata per volere di papa Pio IV (1559-1565) e definitivamente abbandonata dopo la costruzione di porta San Giovanni nel 1574. 

Solo i lavori di restauro degli anni Cinquanta del Novecento portarono alla riscoperta e al recupero del monumento, che fu liberato dal potente interro che lo aveva parzialmente obliterato. In tale occasione venne rimessa in luce la controporta, nota soltanto dalla documentazione grafica antecedente al 1574, e fu riaperto il varco, rivestito nuovamente in travertino sulla base delle impronte dei blocchi asportati. 

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