La torre del “Gran Maestro” ribelle

Un segmento isolato delle mura Aureliane, oggi visibile al centro di piazza Fiume, fu inglobato nello studio/abitazione dello scultore romano Ettore Ferrari, vissuto tra il 1845 e il 1929. Figlio d’arte, di fede mazziniana e politico repubblicano, è stato definito “un artista tra Mazzini e Garibaldi”, dalla personalità discussa e poliedrica.

Ferrari si affermò come artista celebrativo, buona parte delle sue creazioni raffigurarono i grandi protagonisti del Risorgimento italiano, ma, soprattutto, fu politicamente impegnato nelle vicende legate al movimento democratico e repubblicano di fine secolo, amministratore pubblico, docente, affiliato alla massoneria, chiamato a ricoprire dal 1904 al 1917 la carica di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani e di Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese.

Lo studio di Porta Salaria fu teatro di riunioni politiche e di accesi convegni democratici. Nel 1897 tra queste mura fu pianificata la spedizione garibaldina in Grecia. Parallelamente, furono qui organizzate segretissime riunioni con la carboneria romana e con i rappresentanti dell’Alleanza Repubblicana Universale, il cui scopo era quello di mantenere vivo l’ideale repubblicano rivoluzionario. In questo contesto, l’artista diede vita a una pubblicazione, Lux, che si occupava di questioni politiche ed esoteriche. Con l’approvazione nel 1925 della legge contro le società segrete, Ferrari venne costantemente sorvegliato dalla polizia, quindi denunciato e sottoposto ad ammonizione con l’accusa di aver tentato la riorganizzazione della massoneria.

Al di là del valore artistico e celebrativo, le opere di Ettore Ferrari furono spesso osteggiate per il significato politico, anticlericale e antimonarchico. La statua dedicata a Giordano Bruno, eretta nel 1887, divenne il simbolo del libero pensiero e un’aperta sfida alla Chiesa e al Papa: per collocarla definitivamente a Campo de’ Fiori ci vollero ben 13 anni di manifestazioni, scontri tra “bruniani” e “antibruniani”, arresti, dimissioni del Consiglio Comunale dell’epoca e la minaccia da parte di Papa Leone XIII di abbandonare Roma.

Il monumento a Giuseppe Mazzini per trovare una collocazione dovette aspettare addirittura il 1949, la nascita della Repubblica italiana e accettare le censure volute dalla Santa Sede, che giudicava irriverenti alcune allegorie. Una statua equestre di Giuseppe Garibaldi, destinata a Roma, fu addirittura “esiliata” a Rovigo perché ritenuta irrispettosa nei confronti della monarchia unitaria: nella composizione scultorea, infatti, Garibaldi teneva sotto le staffe la Corona di Savoia.

Il fanciullo “innamorato” delle Muse

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, i lavori per la realizzazione del nuovo quartiere Salario in parte distrussero e in parte inglobarono nel tessuto urbano i resti archeologici relativi a una grande necropoli, il sepolcreto Salario. Ciò che rimane è oggi a una quota più bassa del moderno piano di calpestio e, nella maggior parte dei casi, è visibile solo scendendo nei sottopassaggi, nelle rampe dei garage e nelle cantine: un mondo sotterraneo fatto di tombe, ipogei, gallerie e antiche cave di pozzolana che si estendono per centinaia di metri sotto le abitazioni moderne.

Nel 1871, sotto la direzione dell’architetto Vespignani, vennero sacrificati, in nome dell’inurbamento selvaggio, anche i resti dell’antica porta Salaria: fu così che, già inglobati nelle antiche torri che la affiancavano, riemersero alcuni sepolcri dimenticati, che smontati e rimontati più volte, furono alla fine collocati all’incrocio tra via Piave e via Sulpicio Massimo, in una piccola area a ridosso delle mura Aureliane. Così, a dispetto del caos che governa piazza Fiume, in quest’oasi di pace l’attenzione viene attratta da un particolare monumento funerario.

All’interno di un’edicola marmorea è rappresentato un giovanissimo togato che stringe nella mano sinistra un rotolo su cui è inciso un carme: si tratta di Quinto Sulpicio Massimo. Due lunghe iscrizioni, in latino e in greco, ci raccontano una storia malinconica: la tomba fu costruita da una coppia di schiavi, Quinto Euganeo e Lininia Ianuaria, per il loro adorato figlio, morto a soli 11 anni, un enfant prodige che, nonostante la sua giovanissima età, nel 94 d.C. aveva partecipato al terzo agone capitolino, un concorso estemporaneo di poesia greca, gareggiando con ben 52 poeti. In quella occasione il bambino aveva incantato la platea con la sua bravura e con i suoi versi che narravano i rimproveri di Giove ad Apollo, colpevole di aver lasciato guidare il carro del sole al giovane e inesperto Fetonte.

Tale fu l’ammirazione dei giudici e della platea che i suoi stessi padroni per premiarlo ne disposero la liberazione per testamento: purtroppo la storia non ebbe un lieto fine poiché “il troppo studio e l’esagerato amore per le muse” indebolirono il ragazzo tanto da farlo ammalare e causarne la morte prematura.

Familia Randonia e la “Scuola d’Arte Educatrice”

Francesco Randone nasce a Torino nel 1864. Si trasferisce a Roma nel 1870 e per un breve periodo frequenta l’Accademia di Belle Arti, completando la sua formazione artistica presso lo studio del pittore Domenico Bruschi. Nel 1886 ottiene il posto di disegnatore scientifico presso la Reale Università di Roma. Nel 1890 nella Torre XXVIII delle mura Aureliane fonda il primo nucleo della “Scuola Gratuita d’Arte Educatrice” la cui attività era incentrata sulla riscoperta del mondo classico.

Nel 1894 Guido Baccelli, allora ministro della Pubblica Istruzione lo nomina “Conservatore delle mura”. Il Maestro si trasferisce con la famiglia nella Torre XXXIX, in via Campania 10, e lo studio diviene ben presto un punto d’incontro per studiosi, letterati e artisti. Randone, che in un articolo apparso sull’Almanacco degli Artisti del 1930 dichiara di essere la reincarnazione di un Lucumone (antico re etrusco con funzioni anche sacerdotali), riscopre l’antica tecnica del bucchero:

«E ritrovai l’antico segreto: La mia “Bothega” artigiana, la mia “Scuola di Arte Educatrice”, producono quegli stessi “buccheri” che le mie prime mani plasmarono in Etruria. Non ebbi il coraggio, per quanto mi piacesse, di rifare le vecchie forme e mi accinsi a espressioni nuove, che meglio estrinsecassero i tempi nostri e l’attuale mia reincarnazione».

Ma sono le mura Aureliane a divenire tema centrale della ricerca randoniana. Il cronista del periodico La Tribuna Illustrata, in data 4 gennaio 1908, così descrive l’attività del Maestro :

«Il prof. Randone che certamente è per queste antichità non solo il sapiente conservatore, ma una delle persone più pratiche e più competenti, perché da oltre venti anni con grandissimo amore ne studia e ne raccoglie notizie, disegni e ricordi… raccolse quante cose antiche appartenenti alle Mura potè trovare, formandone una interessantissima raccolta; incominciò un memoriale di notizie preziose che mise a disposizione degli studiosi di questa antichità».

Nel 1910 il generale Mariano Borgatti, allora direttore del Museo del Genio Militare di Castel Sant’Angelo, commissionò al Maestro un plastico in terracotta della cinta muraria della città che l’artista presenta all’Esposizione Universale di Roma del 1911. Dal 1921 al 1934 partecipa con la famiglia a numerose mostre d’arte decorativa in Italia e all’estero, ottenendo numerosi riconoscimenti. I suoi buccheri artistici figurano nelle vetrine permanenti della famosa Boutique Italienne a Parigi. Randone muore a Roma nel 1935, lasciando in eredità un patrimonio di testimonianze storiche e artistiche di notevole interesse.

Una porta impacchettata

Quando nel gennaio del 1974, per un intervento di Urban Art, porta Pinciana fu accuratamente fasciata con un immenso tessuto di propilene e corde in dacron, per i romani fu un vero shock!

Christo Vladimirov Yavachev e la sua compagna Jeanne Claude occultarono alla vista dei passanti 259 metri di mura urbane: occorsero quattro impegnativi giorni di lavoro e ben quaranta montatori.

In un periodo non facile per Roma, che aspettava la svolta nicoliniana delle Estati romane per dare una risposta all’oscurantismo dei cosiddetti “anni di piombo”, l’arte, nello scenario violento che pervadeva l’Italia, cercò di non esiliarsi al chiuso degli studi, ma di intervenire nel quotidiano, uscendo dalle gallerie e dai musei.

In quegli anni, caratterizzati da una cultura in fermento, Achille Bonito Oliva, prima di rivelarsi un genio indiscusso con la Transavanguardia e il Gruppo di San Lorenzo, ebbe il merito di spalancare l’arte a un approccio spettacolare ed innovativo. Il critico organizzò a Roma la mostra Vitalità del negativo (1970), con artisti come Jannis Kounellis e Michelangelo Pistoletto, quindi coinvolse Christo in Contemporanea (novembre 1973/marzo 1974): in quella occasione il garage sotterraneo di Villa Borghese fu trasformato in una “pinacoteca drive-in”, che accolse i maggiori protagonisti della cultura internazionale, uniti nel cercare una risposta alla domanda: cos’è l’arte?

La filosofia artistica di Christo si basa sulla sottrazione alla vista dell’esistente tramite il suo impacchettamento, un’improvvisa assenza che ridiventa presenza nel momento dello spacchettamento; da una parte l’azione distruttiva della cancellazione della memoria, dall’altra il recupero rassicurante dell’oggetto.

Questo tratto delle mura Aureliane, dalla fine dell’800 e per oltre un secolo, ospitò diversi studi d’artista: un’altra epoca, altre avanguardie. Possiamo immaginare che Christo, conoscendo la storia del monumento, non volesse limitarsi a un intervento di Urban Art, ma avesse l’intenzione di dare un segnale di rottura con un’arte paludata e isolata, consolidata nella tradizione della figurazione pur con risvolti d’alto artigianato.

“Lo studiolo segreto” del cardinale

Nel 1564 il cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano acquistò un terreno, anticamente occupato dagli Horti Luculliani, incaricando l’architetto Nanni di Baccio Bigio di realizzare un palazzo residenziale. Successivamente Ferdinando de’ Medici, nominato cardinale da papa Pio IV e trasferitosi a Roma nel 1576, acquistò l’intera proprietà.

L’ambizioso progetto di trasformare la residenza in un palazzo concepito come un museo fu affidato a Bartolomeo Ammannati, mentre l’artista fiorentino Jacopo Zucchi fu incaricato di decorare le stanze dell’edificio secondo il complesso piano cosmologico, politico e celebrativo della dinastia de’ Medici. Seguendo la moda dell’epoca Davide Fortini creò, inoltre, un parco dai grandi effetti scenografici, ricco di piante rare e pregiate, con viali intrecciati, arricchiti da opere d’arte e da un belvedere, il Parnaso, dal quale si poteva godere una vista mozzafiato di Roma. Il lato che si affacciava verso il suburbio era invece “arroccato” e ben difeso dalle mura Aureliane, delle quali la proprietà sfruttava camminamenti e torri.

Ed è in una di queste torri, lontano dagli sguardi indiscreti e dalla mondanità, che Ferdinando volle realizzare il suo studiolo. In questo luogo il cardinale poté dedicarsi alla sua passione per la botanica, la zoologia, le pratiche alchimiste e non solo… Si narra, infatti, che lo studiolo fosse utilizzato come alcova e che le amanti potessero accedervi in gran segreto grazie a un ingresso nascosto.

Tra il 1576 e il 1577 Jacopo Zucchi affrescò questo piccolo padiglione. La sala più piccola, denominata la stanza dell’Aurora, fu decorata, secondo il gusto dell’epoca, con motivi allegorici, grottesche e interessanti vedute della stessa Villa Medici, un mix tra realtà, fantasia, simbologie e architetture. Ma la vera creatività si apprezza nella sala principale, ribattezzata sala degli uccelli, dove un pergolato e una voliera sembrano avvolgere il visitatore tra una moltitudine di volatili, animali di ogni sorta e rare specie vegetali: un vero e proprio compendio della flora e della fauna dell’epoca, dove tra rose canine, papaveri, alberi di giuggiole e mele cotogne trovano il loro habitat pellicani, upupe, nibbi, civette, api, faine e galletti.

Tanta bellezza ha rischiato di scomparire quando nel 1803 Napoleone trasferì a Villa Medici l’Accademia di Francia, destinando il padiglione a studio di scultura e seppellendo gli affreschi sotto uno strato di scialbatura. Un recente restauro ha riportato alla luce questa meraviglia permettendoci di vivere le stesse emozioni provate nel cinquecento dai rari ospiti dello studiolo.

Riposare sugli allori

Con l’unità d’Italia le mura Aureliane persero la loro funzione difensiva e divennero essenzialmente un ostacolo al traffico. Quando porta del Popolo finì nel mirino dei neo urbanisti, che decisero l’apertura di nuovi fornici veicolari, si accese un animato dibattito «che coinvolse uomini illustri per cultura e posizione nelle amministrazioni del Comune e dello Stato». Nel 1877 la vicenda si concluse purtroppo con lo smantellamento delle torri che fiancheggiavano la porta. La Commissione Governativa per la Conservazione dei Monumenti, già in preda ai sensi di colpa per aver acconsentito alla demolizione, andò ancor più in crisi quando, iniziati i lavori (costati 300.000 lire), apparvero inaspettatamente, per poi essere distrutti, i resti dell’antica porta Flaminia (270-275 d.C.).

Non appena i picconi si abbatterono sulle torri tornarono alla luce anche diversi frammenti lapidei, utilizzati nel corso dei secoli nelle varie fasi di costruzione e restauro dei bastioni. L’attenzione degli studiosi si concentrò su alcune lastre di marmo lunense di grandi dimensioni, pertinenti a uno splendido bassorilievo, nelle quali era rappresentata un’animata corsa di quadrighe: i resti, datati al II secolo d.C. e conservati presso i Musei Capitolini, originariamente avevano decorato il monumento sepolcrale di un tal Calpurnianus. Chi era costui?

Nell’Itinerario di Einsiedeln, una sorta di guida di Roma redatta nel IX secolo ad uso dei pellegrini, fu descritto un sepolcro dell’antico cimitero Flaminio, ubicato proprio vicino alla porta, e fu trascritta l’iscrizione celebrativa che ne attribuiva la proprietà al popolare auriga Publius Aelius Gutta Calpurnianus. Calpurniano aveva partecipato a numerose competizioni cambiando più volte scuderia, passando dai rossi ai verdi, dai blu ai bianchi. Dopo ben 1127 vittorie, sembra che avesse accumulato una enorme fortuna intascando diversi milioni di sesterzi: un vero campione celebrato con trionfi, cortei, fama e ricchezza.

Lo sfortunato sepolcro rimase integro almeno fino al Quattrocento, quando per volere di Sisto IV (1471-1484) fu saccheggiato ed utilizzato come cava di materiale per il restauro delle due torri. Nel 1911 erano ancora visibili, appena fuori da porta del Popolo, i resti poi demoliti di un sepolcro a pianta circolare, probabilmente proprio quello del nostro auriga. Sia pur separato dalla sua originaria collocazione, il ricordo delle imprese sportive dell’atleta sopravvive alle trasformazioni della città grazie al racconto marmoreo delle lastre capitoline.

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